lunedì 7 dicembre 2015

Oggi sono andata a far visita alla madre di una detenuta.
La casa si trova in una favela di Belo Horizonte.
E' la prima volta che visitavo la persona e il posto.
Mi sono trovata di fronte ad una situazione di estrema miseria materiale e umana.
Durante le mie visite in carcere A. (detenuta) mi aveva informato della realtà fragile e preoccupante in cui viveva con sua mamma, prima di essere presa, una realtà di forte vulnerabilità.
Oggi ho trovato conferma nelle sue parole, nelle sue preoccupazioni e nei suoi pianti, che mi hanno spinto a fare questa visita.
La casa, se così si può chiamare, è formata da due sole stanze buie e con un pavimento di terra. Niente piastrelle e solo muri di mattoni, senza essere rivestiti dal cemento.
Poche cose, vecchie e malandate, con una scarsa cura nell'insieme.
Nel ricevermi una signora di soli 51 anni, con un aspetto che ne dimostrava molti di più e un bimbo sempre in braccio che ancora non cammina: sono la mamma di A. e suo figlio di soli 11 mesi.
La signora parlava sempre con la testa bassa, quasi si vergognasse della sua situazione, descrivendo un passato di alcool e depressione, di precarietà e difficoltà economiche al limite della sopravvivenza.
Ascoltando la sua storia il mio pensiero andava ad A. e mi era chiaro il perché delle scelte sbagliate che aveva fatto, non per giustificarle, ma per comprenderle.
 Sono praticamente sole, nessun marito o uomo di casa che possa aiutare, uomini che non esistono, se non negli abbandoni e violenze ripetitive impresse nei ricordi di queste giovani donne, madre e figlia.
Sono uscita da quella casa con una profonda tristezza e tante riflessioni.
Man mano che l'autobus si avvicinava al centro, pieno di negozi in stile natalizio, mi chiedevo come sarebbe stato il Natale per quella signora e quel bimbo.
Di certo un Natale non seduta ad una tavola apparecchiata con una bella tovaglia, con piatti ricchi di cose buone da mangiare, con gente allegra che si scambia auguri, sorrisi e abbracci.
Niente regali e regalini, niente pensieri o pensierini.
Un Natale in solitudine, con una figlia in carcere e un bimbo che a mala pena la sa abbracciare, in una casa fatta di niente, buia e sporca, in un luogo dove gli addobbi natalizi non arrivano.
E assieme a lei mi sono venute in mente tutte le detenute e detenuti che cominciano a pensare al Natale come ad un giorno triste, perché non potranno sedersi ad una tavola con i loro familiari.
Sarà dentro una cella piena di ricordi.
Poi penso a chi vive per strade, a chi non ha niente, a chi....e penso a come è diverso questo Natale per loro, così lontano da quello sponsorizzato dalla televisione.
Sarà che ho iniziato a vedere le cose dall'altro margine, quello dove si fa fatica a scavalcare perché disturba e "sporca" l'immagine bella e patinata di una realtà "perfetta", un margine dove si incontrano gli abbandonati, i carcerati, le famiglie in situazione di povertà, gli esclusi.
E allora penso a come mi piacerebbe prendere una bella tovaglia e collocarla su una tavola lunga, lunghissima dove si possono sedere tutte le persone provenienti da questo margine, una tavola imbandita di tutte le cose buone che si mangiano a Natale, una tavola dove si respira la spensieratezza dell'allegria. Un Natale per tutti.
E penso a come bisogna saper ringraziare quando si ha e si può, non perché ci si deve sentire in colpa, ma perché bisogna sentirsi grati delle cose che si hanno e che si ha la possibilità di vivere, senza lamentarsi. Grazie è una bella parola.
Sarebbe bello ritornare a vivere il Natale nel suo significato più profondo, ma dipende da noi e dalla voglia di saper scavalcare quel margine che divide e separa, magari iniziando a sederci accanto a chi non è mai invitato.









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