martedì 14 giugno 2016

Non posso non sentirmi felice e piena di emozione ogni volta che esco dall'incontro del martedì mattina con il piccolo gruppo di catechesi con i detenuti. L'ho già scritto, lo so....ma lo riscrivo...e lo riscriverò sempre, perché è un lavoro interiore e profondo che riempie la testa, il cuore e la bocca (le parole) di emozioni, pensieri, riflessioni, che toccano l'anima e la scompigliano di immensa bellezza.
Non c'è martedì che passa senza che nessuno ne sia contagiato, senza che nasca un sorriso o una piccola trasformazione.
Che cosa bella sono per me questi incontri! Che cosa bella sono per noi!
Me li carico sulle spalle e li porto con me, lavorandoci sopra, meditando su quello che si è detto, cercando di viverlo nella pratica e nel mio presente.
E mi aiuta molto....nel rivedermi e nel rivedere posizioni e relazioni che fanno parte del mio quotidiano.
Perché bisogna essere pratica, non solo parole, bisogna essere azione e "opera" di quello che si dice e si comunica, almeno provarci, solo così si è veritieri, solo così si può essere testimonianza.
Siamo un miscuglio di tante cose, siamo amore e odio, tristezza e allegria, rabbia e tolleranza..ecc..ecc...ma quello che conta è imparare a tirare poco alla volta quel negativo che predomina, che pesa, che distrugge, per far spazio e sempre più spazio al Bene che costruisce e che aiuta a migliorare e migliorarsi. E' una continua crescita, una continua lotta, difficile, soprattutto, per chi ha vissuto per anni al lato opposto di quell'Amore che bussa alla porta e che invita a ricominciare....ricominciarsi.
F. in un nostro incontro ha parlato sull'importanza del perdono, chiedendosi se la famiglia della vittima potrà imparare a perdonarlo, perché il senso di colpa è qualcosa che appesantisce l'esistenza, fino a piegare fisicamente il corpo e il suo ha i segni di chi per anni ha cercato un perdono che lo rendesse libero.
La sua schiena è curva e il suo viso è pieno di rughe, in una età che non sfiora la vecchiaia.
Si cerca il perdono di Dio e di chi si è ferito, inginocchiandosi in un dolore che non lascia in pace, che tormenta e cerca soluzioni.
Questo percorso sarà l'ultimo con la pastorale carceraria, visto che mancano alcuni mesi, prima di chiudere il mio viaggio, la mia esperienza, perché sto arrivando alla fine, sto arrivando ai miei tre anni missionari e la scadenza del mio visto.
Ma dedicherò più avanti un pensiero su questo...adesso no, non ci voglio pensare, non voglio pensare alla fine, ma a questo presente che per me è solo motivo di gratitudine e cammino.


Altro presente bello è l'incontro con le detenute in APAC femminile (associazione di protezione e assistenza ai condannati). Giovedì scorso è stata un'aula di valorizzazione umana coi fiocchi, dopo un tempo che ci siamo dedicate a vedere films. Adesso gli incontri sono nel pomeriggio e non più di mattina e di pomeriggio si è un pò in fase relax!! ...ma sempre films impegnativi, né!
Nell'incontro passato si è parlato, dopo aver letto una storia, di come ciascuno di noi rimane "attaccato" dentro di sé a quelle corde che non lo lasciano libero. Tagliare la corda della propria paura, della propria insicurezza, di quelle fragilità che non permettono di svelarci.
Rimaniamo attaccati alle nostre "debolezze" senza voler conoscere le nostre potenzialità e ricchezze interiori. Come dire, è più facile condannarsi e sentirsi sempre inadeguati o incapaci, piuttosto che avere il coraggio di cambiare e valorizzarsi. E così via....
Abbiamo finito l'incontro con una piccola dinamica, un esempio metaforico che segna con un gesto concreto quello che si è riflettuto.
Abbiamo scritto su un foglietto, senza necessariamente leggerlo a voce alta, una nostra paura, debolezza, fragilità, una "corda" a cui ci aggrappiamo strette.
Al centro del tavolo una Bibbia aperta con sopra una forbice, dove collocare i foglietti scritti.
La Parola di Dio rappresenta quella forza che nutre, aiuta a conoscere, aiuta ad alzarsi tutte le volte che si cade, cercando il coraggio per imparare a prendere in mano quella forbice che taglia le corde che non ci rendono liberi, un coraggio che nasce da dentro e nella capacità di credere in se stessi.
C'è chi ha tagliato in tanti piccoli pezzetti il suo foglietto, un gesto simbolico per dire a se stessi: voglio riuscirci...ci proverò!
Io "amo" quelle detenute, sono due anni che camminiamo insieme, mi sento a mio agio quando sto con loro, parlo con loro. L'Apac è un luogo che ti fa dimenticare di essere dentro una prigione, è una prigione, ma nello stesso tempo la respiri come una "famiglia" perché le relazioni che si creano e che si vivono sono di rispetto, di aiuto reciproco, di dignità umana.
Ci vorrebbero più Apac nel mondo, ci vorrebbero più prigioni con questa metodologia, dove il detenuto educa il detenuto, dove la dignità umana non viene a mancare anche se sei colpevole e hai sbagliato, dove si valorizza e si educa, dove non esiste violenza e ne si desidera farla.

La pastorale carceraria è stato il mio SI alla missione, un servizio che amo, che mi educa, che mi insegna, condividendo con i detenuti e le detenute dentro le carceri o in APAC il valore e significato della Vita, di un Dio che non si rifiuta di entrare dentro una cella, ma che è presente nella sua Misericordia e nel volto di ogni storia che si incontra.


Non mancano le telefonate alle famiglie dei detenuti, alle mamme, alle zie, alle nonne, alle moglie.
A volte sono telefonate belle, a volte pesanti e difficili. C'è chi non ne vuole più sapere, c'è chi piange per il proprio figlio e ti dice di dirgli che non lo ha abbandonato, che non ha i soldi per pagare il biglietto perché l'autobus costa tanto e fare un viaggio di andata a ritorno, da uno stato all'altro, non è facile. Sono famiglie povere, famiglie con percorsi difficili, famiglie sofferte.




Nessun commento:

Posta un commento