venerdì 6 novembre 2015

Le donne sono quelle che soffrono di più in prigione.
Soffrono di più, rispetto agli uomini, per la mancanza dei figli. Quando si è madri, in qualche modo, si rimane attaccati a quel cordone ombelicale che si è custodito per nove mesi.
Soffrono di più perché sono spesso dimenticate, dai padri, dai mariti, dai figli.
Soffrono di più perché discriminate in una società maschilista che impone la visione della donna come oggetto, come prostituta, collocata, dalle leggi del patriarcato, in un gradino inferiore rispetto all'uomo.
Soffrono di più perché non hanno cure e attenzioni nei momenti particolari della vita, dalla maternità, alla cura e igiene personale.
Soffrono di più perché nessuno parla di loro.
Qualche anno fa una coordinatrice della Pastorale Carceraria nazionale dichiarò che per lo Stato e la società, pare che esistano solamente più di 440 mila uomini e nessuna donna nelle prigioni del paese, solo che una volta al mese 28 mila di questi detenuti mestruano.
Ogni volta che vado a far visita al C. femminile di Belo Horizonte mi rendo conto di come questa disparità e dimenticanza sociale esiste. La maggior parte delle detenute sono ragazze che vivevano per strada, quando si aprono le porte del carcere nessuno chiede di loro.
Hanno bisogno di tutto, da oggetti per l'igiene personale, ad indumenti intimi.
 C'è chi usa la mollica del pane al posto degli assorbenti, chi non ha un pettine o una saponetta per lavarsi, chi usa gli spazzolini in comune, con il rischio di trasmettere malattie come l'epatite e l'HIV.
Quando parlano, poi, dei figli gli occhi cominciano a farsi rossi e gonfi, pieni di lacrime.
I rispettivi compagni o mariti spariscono o sono in carcere, i genitori sono invece memoria di un passato lasciato alle spalle.
La droga, la prostituzione, la strada hanno consumato i loro corpi, con una vecchiaia fisica che non corrisponde all'età anagrafica.
C'è chi continua a tenere un atteggiamento di prepotenza nelle parole, nei gesti, ostentando rabbia nei confronti della società e del mondo senza sentirsi in colpa per il crimine commesso, giurando di continuare a rifare le stesse cose una volta uscita di prigione e c'è chi, invece, piangendo promette di cambiare vita aggrappandosi a sogni pieni di speranza e pieni di tante paure.
Sono venuta a sapere che i locali del C., negli anni della dittatura brasiliana, erano utilizzati come centri di tortura, la stessa Dilma Rousseff  è stata incarcerata e torturata negli anni di prigionia in Belo Horizonte.
Le torture di oggi sono fatte di violenza psichica, fisica, di discriminazione, di abbandono, di non rispetto. Lo spray al peperoncino viene ancora utilizzato per sedare risse tra le stesse detenute, intossicando e mettendo a rischio tutte quante.
L'autorità e il potere è usato per negare le due ore di libertà nel patio o l'uso della televisione (un solo canale e solo della chiesa evangelica) per castighi e per mantenere la sicurezza in situazioni di disagio.
Credo che la sicurezza non si mantenga con soprusi, divieti e uso della forza, tutto ciò non fa che che aumentare odio e desiderio di ribellione.
Si esce sempre molto caricati da questa struttura, si è carichi delle storie che si ascoltano, si è carichi dell'indignazione per situazioni al limite della dignità umana, si è carichi delle richieste che le detenute ti affidano, si è carichi dei momenti di condivisioni fatti di scambi, di parole, preghiere e speranze.
Poche le politiche sociali per le donne nelle carceri, poche le attenzioni e la cura da parte dell'informazione, dei media, della società in generale, forte la discriminazione.
 Una donna in carcere è solamente una prostituta, una drogata, una vagabonda, una trafficante, la complice di un bandito, una poco di buono, ecc...ecc...ecc....
Dietro a quelle etichette ci sono storie, nomi, maternità, diritti, emozioni, vite, che devono essere rispettate e ascoltate.
Ogni Vita è sacra.






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